Ultimo aggiornamento 17 Dicembre 2021 - 13:38
Giu 28, 2018 Redazione Eventi e cultura 0
“L’apparizione di varie, successive, bizzarre immagini, che per lungo tempo ha sedotti i popoli e dato a pensare ai dotti”
Da Molfetta, in determinate condizioni climatiche ed atmosferiche, era possibile osservare un fenomeno naturale denominato «Lavandaja» o anche «Fata Morgana», che faceva apparire tutto il Gargano tremante e soggetto ad un movimento ondulatorio.
Era una “meteora”, spiegata scientificamente alcuni anni prima dal domenicano Antonio Minasi nella sua «Dissertazione sopra un fenomeno volgarmente detto Fata Morgana o sia apparizione di varie, successive, bizzarre immagini, che per lungo tempo ha sedotti i popoli e dato a pensare ai dotti», pubblicata a Roma nel 1773.
Un fenomeno meteorico osservato nelle ore antimeridiane anche nel mare di Reggio Calabria col mare calmo e con le spalle al sole, quindi in direzione dello Stretto di Messina, come riferiva Michelangelo Manicone nella «Fisica Appula».
Il prodigio fisico, «bello e bizzarro», della “Fata Morgana” aveva impressionato – persino sorpreso e scosso – il fisico molfettese Giuseppe Maria Giovene. Infatti, nella «Raccolta di tutte le opere», edita postuma a Bari per i tipi dei Fratelli Cannone nel 1841, prima che venisse a conoscenza delle dimostrazioni scientifiche del fenomeno, Giovene scriveva: «… in sul primo mattino il sole alzando allora il suo rugiadoso capo dalle onde marine, e l’aria essendo serena, tranquilla, e quieta, si pascevano gli occhi miei del sorprendente e vago spettacolo di una specie di Fata […] Manca poco, che non mi venga fatto di salutar gli abitanti delle città, le quali pure sono riguardo ad alcune non poche miglia, da me lontane […] Dio buono! Qual chiarezza, quale vivacità di visione! […] Frattanto tutto è in moto, tutto è in agitazione, ed or si alzano altieri, e giganteggiano gli oggetti ed or impicciolendosi si abbassano […] Là veggo in mezzo al mare placido e tranquillo ripetuto a foggia d’isola un pezzo di terra con alberi, ed abituri, e là di lontano veggo le fabbriche distintamente, ed i più minuti membri di esse, ma non veggo i campanili; di quell’altra la visione è all’ordinario, ma i campanili si rappresentano colossali… Io veggo, io ammiro, il mio spirito si sublima, io sono rapito […] Che il lettore non creda, che io abbia o descritto finzioni, ovvero esagerato il racconto […] tanto movimento, e tanta agitazione abbiano a finire nel nulla? Io nol credo… Il mal tempo si avvicina».
Giovene indicava il Gargano come il «barometro de’ marinari dell’Apulia Peucezia». Infatti, a seconda che il monte fosse visibile o meno, coperto più o meno parzialmente da una coltre di nubi, i marinai erano in grado di trarne previsioni atmosferiche, oltre la direzione dei venti.
Giuseppe Maria Giovene, nato a Molfetta nel 1753, di nobile famiglia, si era laureato a Napoli in Legge. Dietro la preziosa guida del conterraneo Giuseppe Saverio Poli, si era appassionato alle scienze naturali e ai fenomeni elettrici. Tornato a Molfetta nel 1773, era diventato vicario della diocesi nel 1781. Grazie al celebre abate Alberto Fortis, la sua importante scoperta geologica di una “nitriera naturale” era stata divulgata e aveva destato l’interesse di studiosi dell’epoca e l’attenzione del ministro Giovanni Acton. Noto per le sue osservazioni e descrizioni geologiche e meteorologiche, scriverà in seguito le «Osservazioni elettrico-atmosferico e barometrico insieme paragonate» e nel 1800 sarà accolto nell’Accademia dei XL, subentrando al rinomato Lorenzo Spallanzani. I suoi studi di meteorologia furono orientati, come quelli di tanti intellettuali dell’epoca, al miglioramento dell’agricoltura.
Anche i contadini di Altamura traevano previsioni dal vento secco e freddo proveniente da nord-ovest e che essi chiamavano “Monte S. Angelo”. Un vento che, come riferiva l’altamurano Luca Cagnazzi De Samuele, spirando dalle vette del Gargano causava dannose brinate in primavera, avverso alle quali ai contadini non restava altro che affidarsi alla benevolenza di San Michele.
Michele Eugenio Di Carlo
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